1° maggio, il vescovo Marco Busca: “la pandemia ci ha aiutati a capire l’importanza del lavoro sostenibile”

Busca 1 maggio

Cari lavoratori e lavoratrici, oggi è la vostra festa. Ho ancora vivo il ricordo di quando, da bambino, vedevo i miei genitori alzarsi presto per andare al lavoro, dopo averci svegliato a preparato per la giornata. I miei mi insegnavano che era una “grazia” lavorare, cioè una fortuna e un privilegio. La loro fatica mi è sempre apparsa come qualcosa di “benedetto” e, quando sono entrato in Seminario, mi proposi che un giorno, da prete, avrei lavorato non meno dei miei genitori. Ogni giorno, quando alzo il pane e il vino durante la Messa, benedico il Signore per i frutti della terra e del lavoro dell’uomo: per i cristiani il lavoro non scorre in parallelo, come separato rispetto alla preghiera, alla ricerca di Dio, all’adorazione, ma concorre a formare il corpo di Cristo. Lavorare è offrire un culto gradito a Dio, che si armonizza bene con la necessità di reperire i mezzi di sussistenza per sé e la famiglia, contribuire allo sviluppo economico e culturale della città, realizzare la propria personalità. Per tutti questi motivi, mi sento in particolare consonanza con il titolo che è stato dato al messaggio dei vescovi italiani per il Primo Maggio: «E al popolo stava a cuore il lavoro».
Attualmente, la cosa che mi sta a cuore è quella che procura anche più preoccupazione: che tutti abbiano un lavoro e che sia un lavoro dignitoso, riconosciuto e giustamente retribuito. Purtroppo non è così e, ascoltando i tanti che sono in affanno per la mancanza di lavoro o per le incertezze della propria attività professionale, avverto spesso un senso di impotenza.
Il mio pensiero non va solamente agli uomini e alle donne senza occupazione, ma anche a coloro che sono meno tutelati dalle reti di protezione e di welfare perché irregolari, sottopagati o retribuiti in nero.
Tutti ci rendiamo conto che, con la pandemia, si sono aggravate le diseguaglianze esistenti nel mondo del lavoro, in particolare per i lavoratori e le lavoratrici dei settori che hanno visto ridotta drasticamente l’attività: baristi, ristoratori, commercianti, artigiani, artisti e operatori della cultura, dello spettacolo, del turismo. Con la consapevolezza che le agevolazioni al prestito, i fondi di ristoro, la sospensione dei licenziamenti e di parte degli obblighi fiscali rappresentano risposte parziali e spesso insufficienti ai loro gravosi problemi.
Pare ormai in atto un cambiamento radicale dei paradigmi socio-economici; se questa tendenza si manterrà, penso che avremo molto vantaggio dall’uscire da uno schema produttivo, che finalizza il lavoro al solo reddito, per passare ad una visione di lavoro generativo, che pone al centro la persona. Infatti, il reddito è per l’utilità, ma un maggior reddito non significa automaticamente maggiore felicità. La felicità è il frutto di relazioni umane e sociali generative che utilizzano i beni materiali come occasioni per sviluppare condivisione e amicizia sociale. Proprio la pandemia ci ha aiutati a capire l’importanza del lavoro sostenibile, che potrebbe portare a meglio conciliare i tempi della vita professionale con quelli della vita personale, familiare e affettiva, le esigenze occupazionali e la cura delle relazioni, della spiritualità e del tempo libero. Ma, di certo, serve l’impegno di tutti perché i luoghi di lavoro possano diventare veri laboratori per un artigianato della fraternità che promuova esperienze concrete di condivisione, di sostegno solidale, non solo economico, ai singoli ed alle famiglie più colpite dalla pandemia.
E immaginando che in un laboratorio artigiano ci possano essere anche degli apprendisti, le mie preoccupazioni sono rivolte ancora una volta ai giovani: molti dei loro progetti sono legati alle effettive possibilità di creare o trovare lavoro. Occorre, per questo, uno sforzo convergente delle istituzioni per incrementare le politiche giovanili sulla scuola e la formazione e consentire così ai ragazzi di sognare e preparare oggi il loro futuro.
Infine, ma non da ultimo, se vogliamo essere artigiani di fraternità dobbiamo avere anche il coraggio di trovare strade di conversione per superare i nodi cruciali della produzione delle armi e degli altri strumenti di morte, che nulla hanno a che vedere con la felicità ed anzi sottraggono risorse preziose alla scuola, alla formazione, alla salute, al welfare e al contrasto dei cambiamenti climatici. Facciamo nostro il sogno del profeta Isaia che vede le spade forgiate in vomeri e le lance in falci (Is 2,4)!
La festa del Primo Maggio ci riporta alla bottega di Nazareth dove, in una stretta solidarietà, san Giuseppe esercitava la sua paternità anche facendo da maestro nella professione di falegname al Figlio di Dio che apprese a lavorare con mano d’uomo. Prego perché quel legame che ha unito san Giuseppe artigiano e Cristo lavoratore ispiri ancora le realtà coinvolte nel mondo del lavoro a costruire una rete di protezione e di solidarietà, che è l’antidoto più efficace per contribuire ad alleviare gli effetti dovuti ai gravi problemi di questo tempo.
Ed anche perché tutti coloro che hanno potere pubblico ed economico abbiano a cuore il lavoro e, soprattutto, mettano al centro la persona che lavora; così la nostra società sarà meno impotente di fronte ai problemi e chi soffre per la mancanza o la perdita di lavoro potrà tornare a sognare il futuro.

vescovo Marco