Alberto Grandi: Come si fabbrica il denaro?Il Mes e il paradosso delle “condizionalità”

L'economia mantovana alla sfida delle tecnologie digitali del post-Covid
Alberto Grandi

MANTOVA – Da alcuni mesi ormai assistiamo al grottesco dibattito sulle “condizionalità” previste per poter accedere agli aiuti del famigerato Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità). Siccome il sottoscritto non è un esperto di finanza internazionale, ma, molto più umilmente, uno storico economico che per inclinazione professionale è propenso ad andare al cuore del problema, ho trovato assurda la discussione sul fatto che questi aiuti prevedano delle condizioni per essere erogati e soprattutto delle condizioni per la loro restituzione. Nella sostanza si confrontano due partiti, quelli che minimizzano i costi di questo finanziamento e quelli che invece ne sottolineano la potenziale perdita di sovranità che implicitamente è contenuta in tale accordo.

Dal mio punto di vista, pur essendo politicamente d’accordo con i primi, devo notare che entrambi gli approcci scontano una carenza logica di base. Posto che i fondi erogati dal Mes sono soldi che un minuto prima di essere creati non esistono, né gli uni né gli altri, infatti, si sono posti una domanda banalissima: come si fabbrica il denaro?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo prenderla molto larga e spero che vogliate perdonarmi. Intanto partiamo da una definizione di base: noi oggi siamo in un regime di corso forzoso, per cui la moneta deve essere accettata in pagamento per legge e non per il suo valore intrinseco, che infatti è zero. Anche se nel passato si erano già presentati periodi, più o meno lunghi, nel quale il corso forzoso era stato introdotto da uno o più paesi, tale sistema monetario rappresenta tutt’altro che la normalità. Fino al 1971, infatti, la moneta in circolazione, nelle sue diverse forme, aveva sempre un suo controvalore espresso generalmente in metalli preziosi, in particolare oro e argento. Non è qui il caso di ripercorrere le vicende che portarono l’allora Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon a sospendere la convertibilità del dollaro e a inaugurare il regime dei cambi flessibili; a noi basta sapere che da quel momento tutte le monete in circolazione smisero di rappresentare un valore certo e smisero di avere tra di loro rapporti di cambio stabiliti da accordi tra i governi e tra le istituzioni economiche internazionali (FMI, World Bank, GATT). A quel punto le monete nazionali erano semplici pezzi di carta il cui valore dipendeva da molti fattori, ma, in sostanza, dipendeva dal grado di fiducia che i mercati esprimevano nei confronti dell’economia nazionale che produceva quella determinata moneta. Sapete che per l’Italia fu subito un calvario, ma ci torneremo.

Bene, una volta chiarita la natura dei soldi che abbiamo in tasca, sotto forma di foglietti di carta, di monete metalliche, ma anche di tesserine di plastica, dobbiamo tornare alla nostra domanda: come si produce questo denaro? Perché questo è il fatto curioso, anche se l’essenza del denaro è profondamente cambiata negli ultimi cinquant’anni, la sua produzione sostanzialmente non è mutata e questo perché non ne è mutata la funzione. Quando il denaro aveva un valore intrinseco, le cose andavano grossomodo così: se un privato aveva in casa una catenina d’oro o un candelabro d’argento poteva recarsi alla più vicina zecca (ce n’erano parecchie a quei tempi) e li faceva fondere ottenendo in cambio una certa quantità di monete d’oro o d’argento che avevano un valore nominale superiore al valore del metallo prezioso che aveva portato (per questo ce lo portava, altrimenti non avrebbe avuto convenienza e si sarebbe tenuto il metallo nella forma originale). Ma il valore intrinseco, cioè la quantità di metallo prezioso contenuto nelle monete che riceveva, era inferiore a quello che lui aveva portato alla zecca; la differenza tra quello che lui aveva portato e quello che riceveva era il famigerato “signoraggio”, che serviva a pagare le spese di gestione della zecca e, soprattutto, determinava un certo guadagno per chi deteneva il diritto di battere moneta, che di solito era il signore di una specifica unità amministrativa, da qui il nome. Quindi la disponibilità di moneta era direttamente proporzionale alla ricchezza presente in un territorio e, soprattutto, al volume degli scambi, dato che la moneta serviva solo a regolare i rapporti di compravendita: gran parte della popolazione era esclusa da questo tipo di economia, limitandosi a consumare ciò che direttamente produceva e al massimo utilizzando il baratto.

Esattamente come oggi, il signore che aveva la zecca poteva essere tentato di restituire al privato monete con un valore nominale molto più alto di quello che avrebbero fatto le altre zecche, in modo da attirare più clienti e quindi avere più oro e argento per sé, ma così facendo finiva per svalutare molto le monete che lui produceva. Si, perché questo giochetto aveva il fiato corto: se, ad esempio, il Duca di Mantova faceva il furbo e riduceva troppo la quantità di metallo prezioso contenuto nelle monete coniate dalla sua zecca, i mercanti che compravano la lana greggia a Venezia per produrre i famosi tessuti mantovani, pagandola con le monete della zecca dei Gonzaga, si sarebbero ben presto trovati nella condizione di dover pagare un prezzo molto più alto, espresso in lire mantovane, rispetto a quello che avrebbero pagato se avessero usato fiorini veneziani o ducati milanesi. Infatti, i mercanti non sono fessi oggi e men che meno lo erano allora: esistevano degli operatori specializzati, i saggiatori (quelli che nell’antica Roma si chiamavano nummulari) i quali avevano il compito specifico di valutare la quantità di metallo contenuto nelle monete coniate da ogni singola zecca. Generalmente erano dei banchieri, o meglio dei cambiavalute, i quali avevano tutto l’interesse a conoscere con precisione la lega metallica con la quale si coniavano le monete a Mantova, a Venezia o a Parigi. Insomma, il regime metallico era di fatto una moneta unica ante-litteram; certo, non mancarono periodi nei quali qualche Stato in difficoltà finanziarie provò a svalutare molto le proprie monete, ma, come detto, il sistema tendeva automaticamente a riportare tutto in equilibrio. Gli spazi di manovra per i governi locali che gestivano le zecche erano estremamente limitati e, proprio come oggi, la politica monetaria si riduceva nella ricerca di un difficile equilibrio tra i bisogni della finanza pubblica e i rischi legati a un’eccessiva svalutazione.

Nel corso dei secoli, con l’economia che cresceva e con aree commerciali sempre più interdipendenti, le monete metalliche si dimostrarono da un lato troppo rigide come sistema di pagamento e dall’altro insufficienti a sostenere un volume di scambi in espansione. Per questo i mercanti e i banchieri s’inventarono sistemi sempre più complessi per aumentare la disponibilità di moneta che doveva essere comunque dotata di un proprio valore. Prima di tutto nacquero le lettere di cambio, cioè documenti cartacei che permettevano il trasferimento di valore da un luogo a un altro senza che vi fosse l’effettivo spostamento delle corrispondenti monete metalliche. Ci stiamo avvicinando alla moneta cartacea perché il banchiere poteva anche rilasciare a un proprio cliente lettere di cambio per un valore superiore alla quantità di monete metalliche che quel mercante aveva depositato, assumendosi una parte del rischio, certo, ma scommettendo sul buon andamento degli affari di quel mercante, che alla fine sarebbe riuscito a procurarsi le monete per coprire il valore delle lettere e anche a pagare gli interessi che il banchiere avrebbe applicato per questo servizio. Ma siamo ancora lontani dal corso forzoso perché la lettera faceva comunque perno su un valore reale che da qualche parte era presente e chiunque poteva richiederne in qualunque momento il cambio.

Sarà così per molto tempo, anche se ogni tanto capitava che una banca fallisse proprio per l’eccesso di lettere di cambio emesse o perché falliva un grosso cliente (tipo il re di Francia o d’Inghilterra). Ma nonostante questa maggiore rischiosità, le lettere di cambio venivano scambiate come carta moneta proprio in virtù del valore che rappresentavano e che qualcuno garantiva. Ovviamente il valore di queste lettere dipendeva molto dalla reputazione di colui che le aveva emesse, per cui le lettere dei Medici, dei Doria e dei Fugger (tre famiglie di finanzieri decisamente potenti), valevano di più di tutte le altre e ogni mercante era ben lieto di accettarle in pagamento. Magari con lettere emesse da banchi meno solidi si applicava un sovrapprezzo (interesse) per essere sicuri di non rimanere fregati. Ad esempio, una partita di seta bolognese poteva costare 100 lire, se veniva pagata con una lettera emessa dal banco dei Medici e 150 se pagata con una lettera dei Bardi, che nella loro storia erano già falliti parecchie volte.

La moneta comunque era una questione privata. Erano i privati che decidevano liberamente di trasformare il proprio oro e il proprio argento in monete, andando alla zecca, ed erano sempre i privati che emettevano, accettavano o scambiavano lettere di cambio. Questa cosa, di fatto, non cambiò neppure nei secoli successivi: le banche private cominciarono sempre più spesso a emettere biglietti che rappresentavano i metalli preziosi conservati nei loro caveau e ovviamente tendevano a emetterne in eccesso, sempre per rispondere alle esigenze di un’economia in espansione. Non è un caso se la prima nazione che si pose il problema di regolare per legge questa attività fu proprio l’Inghilterra nel corso del ‘700, quando la Rivoluzione Industriale aveva fatto crescere a dismisura gli scambi commerciali e con essi il bisogno di moneta. L’Inghilterra, alla fine del XVII sec. aveva già istituito la Banca d’Inghilterra, che gestiva il tesoro della Corona e che emetteva banconote legate a questo tesoro; ma queste banconote non erano le uniche che circolavano in Inghilterra, come detto, tutte le banche stampavano i propri biglietti. Questa situazione era foriera di pericoli e instabilità per cui il parlamento inglese legiferò a più riprese per imporre un rapporto fisso tra biglietti che ogni banca poteva emettere e quantità di metalli preziosi presente nei forzieri delle banche stesse. Ma anche questo non metteva al riparo da frequenti spinte inflazionistiche e soprattutto non scongiurava del tutto la possibilità di abusi e di pericolosi fallimenti, per cui si arrivò, nel 1844, all’approvazione del Bank Charter Act, con il quale si riservava alla sola Banca d’Inghilterra il diritto di emettere moneta. Nel giro di un cinquantennio tutti gli Stati del mondo si dotarono di una banca centrale che aveva il monopolio della moneta (tra gli ultimi, manco a dirlo, l’Italia, che ci arrivò solo nel 1893 in maniera abbastanza rocambolesca…)

A scanso di equivoci, il fatto che esistesse un ente pubblico che aveva il monopolio dell’emissione di moneta, non significa assolutamente che il governo politico del Paese avesse il potere di decidere quanta moneta produrre. Il governo poteva nominare il governatore della Banca, poteva manovrare sui tassi di interesse, ma la quantità di moneta in circolazione continuava a essere funzione della quantità di metalli preziosi (dopo il 1844 solo l’oro) presente nel Paese. Quindi, esattamente come ai tempi dei Gonzaga, erano i privati (banche e imprese) a domandare moneta e, al tempo stesso, a creare le condizioni per una sua maggiore offerta attraverso l’andamento della bilancia dei pagamenti. Questo regime monetario internazionale, che prese il nome di Gold Standard, rimase in vigore fino al 1914. Qualche Paese poteva avere qualche difficoltà temporanea e quindi si sganciava da questo sistema; ad esempio l’Italia (ma che ve lo dico a fare), che nel 1866, per finanziare la Terza Guerra d’Indipendenza fu costretta a chiedere un prestito di 250 milioni alla Banca Nazionale (che era solo una delle 5 banche di emissione), senza che vi fosse l’effettivo controvalore in oro e quindi venne introdotto il corso forzoso, che rimase in vigore fino al 1883 (poi di nuovo introdotto nel 1887 e definitivamente abolito solo nel 1902, grazie alle rimesse degli emigrati, che riempirono l’Italia di valute pregiate e di oro).

Dopo il 1914, tra alti e bassi, con diversi periodi di pausa, attraverso un’altra guerra mondiale e alcuni “tagliandi” di revisione, come detto, il Gold Standard rimase in vigore fino al 1971. Quando Nixon dichiarò il “liberi tutti” ci fu molto panico, ma tutti si convinsero immediatamente della necessità di trovare nuovi equilibri e nuove forme di coordinamento. In Europa fu quasi automatico pensare a un sistema monetario integrato, dal momento che dal 1957 esisteva un’area di libero scambio sempre più interconnessa. Ma la tentazione di risolvere i problemi dicendo di si a tutti era forte, soprattutto per quei paesi politicamente più instabili, come l’Italia degli anni ’70, esattamente come la Repubblica di Weimar negli anni ’20. Ora che non c’erano più vincoli e che la politica poteva decidere “democraticamente” quanta moneta mettere in circolo era davvero difficile resistere. Tutte le forme di dipendenza risultano particolarmente subdole, basti pensare a Zeno che ogni vota che si accendeva una sigaretta si diceva “questa è l’ultima”; stampare moneta per finanziare la spesa pubblica non fa eccezione, quando si comincia è sempre tremendamente difficile smettere. Lo sapevano anche i governanti di quegli anni là, per questo, dopo un decennio da sballo, molti Paesi (tra i quali l’Italia) decisero di iniziare la terapia di disintossicazione; perché anche quando sembra che creare moneta non costi nulla, in realtà costa tanto in termini di inflazione e quindi di distruzione del risparmio e del valore. Allora si è ricominciato a seguire il sano principio di separazione della politica dalla moneta, con il famoso divorzio della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro nel 1981, che fu l’evidente presa d’atto del cambiamento avvenuto. Fino al 1971, come si è detto, tale separazione non aveva alcuna ragione d’essere, dal momento che la produzione di moneta era un fattore esogeno alla politica, con l’introduzione del corso forzoso questo matrimonio stava soffocando uno dei due coniugi.

E quindi siamo tornati al punto di partenza: chi produce la moneta? Dopo quel decennio particolare, tornarono i privati, tutti noi, attraverso una banca che concede crediti agli Stati, come facevano i Medici con il re di Francia, creando moneta che prima non c’era. Ma siccome la moneta è un affare privato, per evitare facili tentazioni, le banche centrali hanno lo scopo prioritario di contenere l’inflazione, che poi è la cosa che davvero interessa al mercato, vale a dire il vero “fabbricatore” della moneta: se proprio deve esserci inflazione, che ci sia perché il mercato si espande, non perché si espande la moneta. Oggi il nostro denaro viene prodotto dalla BCE, che è una S.p.A. il cui capitale è interamente detenuto dalle banche centrali dei paesi dell’area Euro, secondo quote che riflettono la percentuale di popolazione e del PIL di ogni Stato sul totale. Le banche centrali, a loro volta, sono S.p.A. il cui capitale è completamente nelle mani dei privati (banche, assicurazioni, imprese, fondi di investimento, ecc.). Quindi, come dai tempi di Carlo Magno, sono i privati che creano il denaro. Perché le banche conservano i nostri risparmi, le assicurazioni ci garantiscono dagli imprevisti della vita e i fondi di investimento ci pagano il nostro tempo, insomma siamo tutti noi che ogni giorno andiamo alla zecca di Francoforte con i nostri oggetti d’oro a trasformarli in moneta. Questo denaro serve a rendere possibili gli scambi, ma può servire anche per finanziare uno Stato per sue esigenze non sostenibili con il normale flusso di cassa generato dalla tassazione.

Oggi, vista l’eccezionalità del momento, i governi possono chiedere a tutti noi di fare uno sforzo (un po’ di inflazione che si mangerà un po’ dei nostri redditi e dei nostri risparmi, sperando che la ripresa sia veloce e completa), possono chiederci di applicare uno sconto, ma non possono chiederci di non avere vincoli, quantomeno nella quantità, perché la produzione di moneta non è quasi mai stata una scelta politica e quando lo è stata è sempre andata a finire malissimo.